Richard Hart, riscrivere l’arte di fare il pane

Un colpo di fulmine con una piccola bakery in California e da allora, una missione: realizzare la pagnotta perfetta
Richard Hart, riscrivere l’arte di fare il pane

Richard Hart non è solo il fondatore, l’anima e il cuore di Hart Bakery, il progetto ‘mani in
pasta’ che ha preso forma a Copenaghen con René Redzepi di Noma. A lui si deve il successo di
quel totem della panificazione contemporanea che è Tartine Bakery, a San Francisco, di cui è
stato head baker per un lustro.

Ma soprattutto, a questo chef inglese classe 1977 va riconosciuto il merito di aver portato negli Usa la cultura del pane: “E intendo il pane quello vero, quello buono, all’antica. Per me è diventato una vera e propria ossessione. Una missione, persino: penso che molti si siano allontanati dal consumo di pane perché lo trovavano poco digeribile. Ma è sufficiente scegliere ottime materie prime e lavorare sull’alveolatura e la crosta perfetta, per ottenere un risultato eccellente, ben tollerato da tutti”.

Com’è questo pane perfetto?

Inevitabilmente ognuno è diverso dall’altro perché non è la perfezione estetica che cerchiamo, ma uno spettro cromatico il più ampio possibile, che ci permetta di rendere giustizia a tutti gli ingredienti, con le loro particolarità: le nostre sono farine 100% biologiche, rimacinate a pietra, e lavoriamo in modo maniacale sulla lievitazione con lievito madre. Il risultato è un pane spolverato di farina bianca, con l’interno marrone e un po’ di nero sulla crosta, che a mio parere deve essere sempre bruciacchiata.

Una precisione quasi scientifica nel dosaggio e nei passaggi, quindi
In realtà no. C’è molto ‘andare a sentimento’ nel processo di produzione o, come dite voi italiani, un po’ di atteggiamento sprezzante. Ci aiuta a far sembrare tutto molto naturale, come se avvenisse con nonchalance, e in fondo è così: dosiamo secondo le sensazioni del momento e chi ci osserva assiste a una specie di magia. Per questo insisto sul fatto che il risultato perfetto lo otteniamo non più di tre volte all’anno! Ma va benissimo così.

Da Londra, alla California, a Copenaghen. Quello del pane è un linguaggio universale?

Per certi versi sì. È grazie al pane che si riesce realmente a entrare in empatia con l’anima di un luogo. A Londra, dove sono nato, il cliente si aspetta di veder reinventati i grandi classici, dagli iced fingers, ai Chelsea Bun al pane stesso, che più è originale e creativo, meglio è. Negli Usa, quando sono arrivato – parliamo dell’inizio degli anni Duemila – sostanzialmente non esisteva una cultura del pane e della panificazione. Tutto era industriale, tranne in qualche esperienza gourmet di ristorazione, da cui sono passato anche io.

Poi, per caso, passeggiando per una piccola località della California, mi sono imbattuto in un luogo che mi è sembrato una specie di astronave: musica rock a tutto volume, energumeni tatuati che spostavano enormi pagnotte da un forno all’altro al grido di ‘bring back the real bread’. Ho pensato: “Qui è dove voglio lavorare”. Sono riuscito a convincere la proprietaria 75enne a darmi una chance e da lì sono passato a Tartine Bakery: sette anni incredibili, in cui ho imparato tutto quello che oggi conosco sulla lievitazione naturale.

Leggi l’intervista completa a Richard Hart sull’ultimo numero di Dolcesalato ↓

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