Pane: frutto di un bacio d’amore

Pane: frutto di un bacio d’amore

Ai primordi dell’evoluzione umana, tra storia, miti, leggende e teorie, la trasformazione dei cereali in un prodotto completo e digeribile. Ultime teorie sull’evoluzione dell’alimento che ha accompagnato il corso degli eventi e l’evoluzione dell’uomo.

di Walter Cricrì, direttore Inap (Istituto Nazionale Assaggiatori Pane)

La storia dell’uomo è stata da sempre accompagnata da quella del pane; comincia, infatti, agli albori della civiltà, quando l’uomo preistorico cominciò a utilizzare i prodotti della terra per il proprio sostentamento.

Il viaggio nel tempo del pane è un filo, sottile e resistente, di quell’ordito su cui s’intesse la storia della civiltà. Le genti del Mediterraneo orientale, fino a 15-12.000 anni fa (primo Mesolitico), con parziali persistenze anche in epoche successive, non mietevano le spighe, ma raccoglievano da terra direttamente, quasi come funghi, il «pane» in quanto, dalle spighe ancora a maturità latteo-cerosa si estraevano morbidi chicchi con la semplice pressione delle dita, che si mangiavano tali e quali, ma è chiaro che il loro valore nutritivo era limitato.

Le spighe, quasi mature, venivano invece previamente bruciacchiate, spargendole sopra un falò, fatto con gli sterpi, spesso direttamente sul campo. Con lo sfregamento tra le mani, le cariossidi si liberavano dalle ceneri, di glume e glumelle, ed erano pronte per il pasto. Praticamente impossibile era invece il trattamento con il fuoco delle spighe pienamente mature, perché con il frumento selvatico non si può attendere per la raccolta la maturità completa, in quanto in tale stadio basta il più piccolo urto per farle «disarticolare» cioè autofrantumare, facendole cadere a terra disperdendo le cariossidi.

Probabilmente, le tracce più antiche della produzione del pane, forse in tutto il bacino del Mediterraneo, sono da rintracciarsi in un manufatto attribuito alla civiltà del Popolo del Mare (Pelasgi) vissuta anche in Calabria verso il VI millennio a.C..

Questo reperto consiste in una lamina di rame brillante, sottile come un foglio di carta velina, recuperata da Oreste Pace, studiata e descritta dallo studioso prof. Domenico Raso. L’incredibile artista-artigiano pelasgico, in questa lamina ha inciso, lungo la parte centrale, una serie di “vignette” di vita quotidiana (scene di caccia, di guerra, di vita agricola, sociale) e lungo la cornice superiore e inferiore un vero e proprio “racconto pelasgico” in una forma di prescrittura (segnature ideopittografiche). Tra le scene principali della lamina di rame, è affascinante poter osservare alcuni individui dediti alla lavorazione dell’orzo e dei cereali. In particolare, il ciclo lavorativo che in questa fase prevede la battitura o trebbiatura manuale, la spulatura a vento mediante vaglio o crivello da aia, alla molitura con mulino a mano. La scena mostra anche la presenza dei guerrieri venuti da oriente, atti a proteggerne il ciclo da eventuali nemici avidi di razziarne il raccolto. Il Disco di Festo racconterebbe, a sua volta, che i pirati erano dediti alle ruberie proprio dell’orzo sulle nostre coste, considerato quindi un bene molto prezioso.

Il guerriero presente nella lamina vicino ai lavoratori è proprio sull’atto di sollevare l’arco e scoccare la freccia. Per tanto, l’artista ha voluto rappresentare l’importanza del cereale, la sua lavorazione e soprattutto la protezione dello stesso affidata ai guerrieri venuti da oriente.

Tutto ciò ci induce a portare indietro l’orologio della panificazione rispetto all’attribuzione della vera e propria panificazione da parte del popolo degli Egizi.

Lamina Pelasgica
Lamina Pelasgica

Molto fantasioso e intrigante è un altro salto all’indietro che ipotizza la nuova teoria della lievitazione. Superate le leggende della schiava, che dimentica un pezzo di impasto e lo ritrova lievitato e pronto per la cottura; oppure quella dell’esondazione del Nilo che bagna dei sacchi di farina, facendola inacidire e lievitare, e una volta cotta avrebbe fornito un “pane” più soffice e digeribile…, a quanto pare, sarebbe verosimile un’altra teoria, suggerita da una pratica tuttora riscontrabile presso popolazioni primitive.

Secondo questa ipotesi, i grani venivano masticati e insalivati dalle mamme, anche per i neonati e gli infanti ancora privi di dentatura, quale alimento integrativo dell’allattamento, da passare con un caldo e morbido bacio da madre a figlio/a: un atto di totale amore. Probabilmente anche l’origine del bacio (come teorizza Desmond Morris nel libro “L’uomo e i suoi segreti”). Un modo di nutrire i cuccioli di uomo, simile a quello degli uccelli, ci sembra oggi bizzarro ed estraneo, ma la nostra specie l’ha probabilmente praticato per più di un milione di anni.

Gli amanti che si esplorano reciprocamente la bocca con la lingua ritroverebbero, quindi, il benessere arcaico e la sensazione di gratificazione e fiducia della nutrizione bocca a bocca. Questo, per il biologo Morris, rafforzerebbe la loro confidenza e il loro legame. Anche secondo Freud, attraverso il bacio, si recupera il soddisfacimento dell’oralità dell’infanzia. La bocca è il primo strumento privilegiato attraverso cui i bambini conoscono le persone, gli oggetti il mondo. I bambini portano tutto alla bocca, perché è un organo estremamente sensibile e luogo di transito di ciò che dà più soddisfazione: il cibo.

Ma tornando al pane, come avviene ai giorni nostri, anche allora i neonati avrebbero potuto non mangiare tutta la pappa, e nelle civiltà preistoriche (come in quelle attuali del Terzo mondo) la pappa che non veniva mangiata subito, non era gettata, ma conservata. Poiché la ptialina (l’enzima contenuto nella saliva) scinde l’amido in zuccheri semplici solubili e fermentescibili e l’ambiente (in particolare le spighe, così come i frutti) è pervaso da microrganismi, quali lieviti, batteri lattici e altri agenti della fermentazione, in breve tempo la pappa iniziava a fermentare.

Cioè la pappa «lievitava», grazie alle bolle di anidride carbonica che si formavano nell’impasto.

Per bloccare la fermentazione e impedire la successiva degradazione (putrefazione) della pappa, il mezzo più istintivo e immediato sarebbe stata la cottura, inserendo nella pappa, delle pietre roventi oppure, più semplicemente, secondo un uso tuttora praticato dai beduini, ponendo un po’ di poltiglia densa o della pasta, direttamente sulle braci ancora calde o sulle pietre cocenti.

Così le pappe fermentate, che minacciavano di imputridire, lievitate e cotte, avrebbero costituito il primo pane. Tutto ciò verrebbe ad invertire la teoria secondo la quale il pane azzimo abbia preceduto il pane lievitato, come solitamente si crede, ma sarebbe avvenuto l’opposto. La cottura si compiva solo dopo aver biascicato le granaglie e dopo aver fatto avviare la lievitazione.

E significativo il fatto che presso gli antichi Israeliti (ma anche presso altre civiltà primitive e antiche) la fermentazione venisse interpretata come segno di alterazione, da cui l’obbligo durante alcuni riti religiosi di consumare pane azzimo. Esiste inoltre un’importante e vasta documentazione circa l’uso molto diffuso, tra le popolazioni proto-agricole di tutti i continenti (Eurasia, Africa, America, Oceania), di produrre anche bevande fermentate, come la birra, con cereali masticati e quindi insalivati, cui si è aggiunta un’abbondante quantità di acqua. Si tratta di bevande al coliche, in quanto i lieviti in questo caso tra sformano gli zuccheri in alcol e anidride carbonica.

Quindi tanto il pane quanto la birra discenderebbero dai grani masticati e insalivati.

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