Come cambia il ruolo dello chef?

Come cambia il ruolo dello chef?

Il rapporto tra scienza e cucina si evolve e ridefinisce il lavoro delle cucine e il compito dei cuochi. Ne abbiamo parlato con tre esponenti del panorama ristorativo italiano

Oggi il cuoco ha a disposizione una vasta scelta di tecniche, tecnologie e conoscenze scientifiche, che stanno trasformando il modo di concepire e preparare le ricette, permettendo di raggiungere standard qualitativi sempre più alti e – contemporaneamente – di codificare ogni procedimento rendendolo perfettamente replicabile nel tempo.

Un vantaggio operativo che può avere interessanti ripercussioni anche sul ruolo degli stessi chef che – pur rimanendo le colonne portanti di ogni cucina – si trovano a ripensare il proprio ruolo. Vi raccontiamo tre esperienze e tre visioni differenti, ma con alcuni punti in comune.

Niko Romito e la ‘cucina del mezzo’
“Vogliamo portare l’alta cucina a strati sempre più estesi di consumatori, scendere al livello della gente, allargare la proposta di ‘cucina del mezzo’, generare più anelli di congiunzione tra alta ristorazione e trattoria”. Questa dichiarazione-manifesto, fatta dal palco della passata edizione di Identità Golose, racchiude tutta la filosofia del lavoro di Niko Romito, che ha condotto al concretizzarsi di esperienze e progetti unici. Come Spazio, il format nato prima a Rivisondoli e poi a Roma e Milano, che rappresenta da un lato il naturale proseguimento del progetto formativo dello chef (la sua scuola di alta formazione e specializzazione professionale) e dall’altro un importante anello di congiunzione con il ristorante Reale. Ma anche il progetto Intelligenza Nutrizionale, che si rivolge alla ristorazione collettiva con l’obiettivo di rendere i principi dell’alta cucina applicabili su larga scala e accessibili ad ampie fasce di consumatori.

Qual è la fonte di ispirazione per i suoi numerosi progetti?
Le mie idee nascono al Reale, il mio punto di partenza e di ritorno. Il cuoco moderno si deve mettere in discussione, deve cercare di portare la sua cucina a strati sempre più ampi di consumatori. Il ruolo del ristorante gastronomico, luogo elitario per definizione, diventa così quello di laboratorio, dove mettere a punto protocolli e prodotti standardizzabili e replicabili che possono essere sviluppati per raggiungere il 100% del pubblico.

È questo l’obiettivo di Spazio?
Spazio è un format di cucina italiana contemporanea, comprensibile, attuale e avvicinabile: la cucina del mezzo, che propone i grandi piatti della tradizione interpretati secondo i dogmi dell’alta ristorazione. Come tale, può avvicinare consumatori anche molto lontani da noi alla nostra idea di cucina italiana; è uno strumento di formazione diffusa.

Cosa significa dal punto di vista imprenditoriale rendere l’alta cucina più accessibile?
L’alta cucina, in questo caso intesa come cucina del mezzo o cucina collettiva, deve essere studiata anche da un punto di vista industriale per elaborare format standardizzabili e quindi facilmente riproducibili. Significa ottimizzare il food cost applicando tecniche di trasformazione delle materie prime che consentano anche recuperi dello scarto, mantenendo sempre inalterati i valori organolettici e nutrizionali degli alimenti.
La standardizzazione dei processi è il frutto della continua ricerca ad alto tasso tecnologico, che genera una serie di protocolli e ricette codificate che permettono di preparare su ampia scala piatti buoni, economici, sostenibili e nutrienti: è scienza applicata alla cucina.

Proprio come nel protocollo “Intelligenza Nutrizionale”, grazie al quale è riuscito a trasformare il cibo “da ospedale” in un menù di alta qualità. Come funziona una struttura che segue questo protocollo e quali sono stati i passaggi chiave per implementarlo?
Oggi il progetto è attivo all’Ospedale Cristo Re di Roma. Le sfide che mi ha imposto sono state: i numeri, i costi, la sostenibilità e la riproducibilità, visto che chi somministra il cibo non ha necessariamente un profilo specializzato nella ristorazione. Ogni piatto è stato sviluppato seguendo il principio di considerare il cibo come prima cura, usando le materie prime che l’ospedale già usava, ma trasformandole in maniera “dolce” per mantenerne i valori nutrizionali inalterati. Abbiamo ridotto drasticamente l’impiego di grassi e semilavorati scadenti, creandone di nostri e abbiamo lavorato nel rispetto di stagionalità, tradizione e piacevolezza di gusto, texture ed estetica dei piatti.

Svilupperà progetti analoghi in futuro?
L’obiettivo ora è diffondere il protocollo in altri ospedali, ma anche nelle mense scolastiche e aziendali e nelle carceri. La ristorazione collettiva, nella sua accezione più generale, può beneficiare grandemente di questo progetto, che è applicabile e modulabile a tutti gli ambiti che ne fanno parte.

Qual è, in tutto questo, il ruolo della scienza tra le mura della cucina?
È fondamentale per me avere l’assistenza di importanti partner scientifici e tecnici che mi consentano di elaborare e strutturare le tecniche che metto a punto nel mio laboratorio, studiando ingredienti e rielaborando le tecniche tradizionali nella prospettiva di creare ricette codificate che possano essere replicabili anche su vasta schiera e accessibili come prezzi di realizzazione.

Come cambia il ruolo dello chef?
Lo chef oggi non è e non può più essere una figura che regna incontrastata tra le mura elitarie della sua cucina, in una specie di voluto isolamento, deve mettersi in discussione, deve diffondere le sue idee, deve raggiungere strati sempre più ampi di consumatori e deve elaborare un linguaggio gastronomico decifrabile.

Gualtiero Marchesi: il cuoco è un direttore d’orchestra
L’attenzione verso i giovani è da anni al centro del lavoro di Gualtiero Marchesi: prima come rettore di Alma, la Scuola Internazionale di Cucina di Colorno (PR), poi con la Fondazione Marchesi e, infine, con l’Accademia: un luogo di studio, apprendimento e sperimentazione, rivolto a giovani cuochi, con l’obiettivo non tanto di insegnare le tecniche, quanto di approfondire e affinare le proprie capacità personali. “La cucina non è un fine è un mezzo” si legge nella presentazione dell’Accademia. “È uno dei linguaggi con cui parlare a se stessi e al mondo e per raggiungere questa dimensione, bisogna passare dalla condizione, imprescindibile, di esecutore a quella più indefinibile e profonda di compositore”.

Qual è oggi il ruolo dello chef nella cucina di un ristorante di alto livello?
Potremmo definirlo un direttore che sa far suonare l’orchestra solo se dispone di buoni musicisti. Il cuoco nel suo ristorante deve conoscere e dominare tutte le partite solo così può imprimere ai piatti e al lavoro della brigata un suo stile.

Quanto è importante codificare le ricette e standardizzare il lavoro in cucina e quanto lo sono il tocco creativo, la fantasia e l’improvvisazione?
Codificare le ricette, arrivare a scriverle correttamente, indicando con estrema precisione i tempi e i pesi è un passaggio fondamentale. Solo dopo aver compreso la ricetta, dopo essere riusciti a eseguirla alla perfezione, si può improvvisare. Il primo livello è il buon esecutore – ciò che si richiede veramente a un cuoco – solo dopo arriva l’eventuale interpretazione.

Fino a che punto è giusto spingersi? Le ricette di alta cucina potrebbero diventare realizzabili anche da persone senza competenze specifiche? Potrebbe paradossalmente esistere un’alta cucina senza chef?
Se anziché il francesismo chef, che vuol dire solo capo – a cui andrebbe aggiunto di cosa si occupa – usassimo cuoco, allora le risponderei che se ci sono dei cuochi veri possono cucinare anche fuori da un ristorante d’alta cucina. L’importante è che la stessa cosa avvenga al contrario.

Scienza e cucina sono materie compatibili? Quanto è utile che la scienza entri in cucina e quanto invece contano la maestria, l’istinto, la competenza e l’esperienza dello chef?
Sono sorelle, scienza e cucina. La cucina è fatta di fisica e chimica. E senza la conoscenza di ambedue diventa indigesta e potenzialmente pericolosa. Per contro, non ho mai amato gli estremismi, in cucina o nel piatto. Ho sempre parlato di semplicità, sottolineando che la materia è forma e che, quindi, bisogna conoscerla e rispettarla senza violentarla nel gusto e nell’aspetto. Ricordiamoci che il cibo è salute e che il cuoco dovrebbe prevenire il lavoro del medico.

Spesso si sente parlare di democratizzazione dell’alta ristorazione. Qual è la sua opinione su questo tema?
Più che di alta io parlerei di buona cucina. Poi, ognuno è libero di scegliersi il ristorante che preferisce, in base alla sua curiosità e alle sue possibilità.

Alcuni anni fa lei ha firmato, per una nota catena di fast food, alcune ricette. È stato un modo per avvicinare i più giovani a una cucina diversa? Rifarebbe di nuovo quell’esperienza?
Certo che la rifarei. È stata un’esperienza importante essere riuscito a introdurre le verdure, come melanzane e spinaci, in un luogo frequentato da giovani e famiglie.

Si è trattato in quel caso di un lavoro di codifica delle preparazioni per renderle realizzabili da personale inesperto. Quali sono stati i risultati? È stato soddisfatto di come le sue ricette sono state preparate?
Per raggiungere qualsiasi obiettivo sono necessari volontà, conoscenze appropriate e molta, molta organizzazione.

Nicola Massari: la cucina pensante
Obiettivo di Fermento, il locale bresciano ideato da Nicola Massari, è quello di proporre una nuova esperienza di gusto basata su alta qualità delle materie prime e cotture lente a temperatura controllata, in un concept che sposa indissolubilmente scienza e gastronomia, in quella che viene “cucina pensante”.

Com’è organizzata e come funziona la cucina di Fermento?
L’idea di partenza è stata quella di suddividere in vari gradi di complessità la preparazione delle pietanze, separando il lavoro “dietro le quinte”, che avviene in laboratorio, da quello front-end, nella cucina a vista. La prima fase del lavoro parte dalla minuziosa codifica della ricetta e dalla sua realizzazione vera e propria: dalla selezione delle materie prime alla loro lavorazione secondo il nostro metodo. Davanti al cliente avvengono solo le ultime fasi di rigenerazione e impiattamento, che non richiedono mai più di otto minuti e hanno un grado di difficoltà standard.

Parliamo del dietro le quinte… In cosa consiste il vostro metodo di lavoro?
Ogni piatto nasce dall’osservazione della cucina della tradizione e dalla ricerca dello “stato dell’arte”; una volta trovato l’equilibrio gastronomico desiderato lo traduciamo in un metodo che prevede la suddivisione dei processi in parti sempre più piccole, che poi vengono

riunite in modo che la pietanza assuma la forma gastronomica originaria. I prodotti vengono poi pastorizzati, abbattuti e stoccati a temperatura positiva fino al momento del servizio che – come dicevo – prevede una rigenerazione, in forno, a bagnomaria o al microonde, e il successivo impiattamento.

Quali le ragioni di questa scelta?
Con questo sistema siamo in grado di mantenere costante l’elevato standard qualitativo che ci siamo imposti, anche nell’ottica di replicabilità del format: i prodotti abbattuti e stoccati possono essere infatti realizzati in un laboratorio centrale e facilmente trasportati in altri locali. Inoltre, la semplificazione delle ultime fasi di preparazione del piatto, le rende accessibili anche a personale senza competenze specifiche, permettendoci così di selezionare i nostri collaboratori sulla base di altre qualità, aprendoci a un mercato del lavoro più ampio.

Quindi a Fermento la figura del cuoco non serve?
Non è indispensabile nel lavoro front end, ma è fondamentale in laboratorio, dove figure con competenze scientifiche e tecnologiche devono confrontarsi con professionisti della cucina, in una collaborazione che permetta, a partire dalle migliori materie prime, di dare vita a piatti buoni e di alta qualità secondo processi e tecniche codificate ed evolute.

© Riproduzione riservata