Olio di palma: la grande incertezza

Olio di palma: la grande incertezza

 
di Marta Bergamaschi
Esiste una questione che si chiama ‘olio di palma’ e che sempre più assomiglia a un grande labirinto affollato di persone che parlano e parlano sul come venirne a capo, in realtà senza grandi risultati.
Com’è d’uso fare di questi tempi, affidarsi al web pare sempre la prima soluzione.
Purtroppo per chi ha come desiderio quello di individuare una risposta univoca, che metta a tacere tutti e che sia veramente inattaccabile, non è certo questa la modalità.
Il miracolo difatti non si avvera, non solo sul web – dove tra i primi risultati della ricerca ‘olio di palma’ non esiste una pagina istituzionale che rincuori sulla vicenda, e i primi dieci link che compaiono rimandano a pagine informative assolutamente agli antipodi tra loro – ma nemmeno tra gli esperti chimici e nutrizionisti, secondo i quali la sentenza la si può trovare nel bene tanto quanto nel male.
Per fare qualche passo indietro, il caso si è scatenato ormai qualche mese fa, quando a dicembre dell’anno passato è entrato in vigore il regolamento comunitario relativo alla fornitura di informazioni ai consumatori sugli alimenti (Regolamento (UE) n. 1169/2011).
In seguito a questa introduzione, è diventata incompleta la dicitura ‘olio o grasso vegetale’, con la conseguenza che è ora obbligatorio specificare la tipologia precisa di olio o grasso impiegato nella preparazione del prodotto.
Si scoprono così gli altarini e il mondo tutto d’un tratto si rende conto dell’incredibile dono dell’ubiquità che caratterizza questo olio vegetale, presente nella stragrande maggioranza dei prodotti da forno industriali, salati o dolci che siano.
A caratterizzare fortemente questa materia grassa dalle origini tropicali è la sua incredibile versatilità.
Considerato come ‘olio’ un grasso di origine vegetale e liquido a temperatura ambiente, mentre come ‘grasso’ uno di origine animale e solido a temperatura ambiente, con l’olio di palma ci troviamo nel caso dell’eccezione.
Si dia il caso che quest’olio ottenuto dalla spremitura dei frutti della palma da olio sia solido a temperatura ambiente grazie alla sua alta concentrazione di acidi grassi saturi (circa il 50%). Questa particolare struttura chimica fa si che questa materia grassa di origine vegetale possa essere sostituita ad altri ingredienti ormai sempre più in disuso nell’industria alimentare – tra questi i pericolosi grassi idrogenati e il burro perché grasso animale.
Come ci spiega il Prof. Davide Cassi, docente di Fisica della materia presso l’Università di Parma e sviluppatore della ‘cucina molecolare’, l’olio di palma è entrato a far parte dell’ingredientistica industriale perché utilizzato come alternativa nobile al grasso idrogenato. Medesimo è il punto di vista del Prof. Franco Antoniazzi, docente di Tecnologie alimentari dell’Università di Parma, che sottolinea come anche l’olio di palma contenga una discreta quantità di acidi grassi saturi ma che comunque la sua scelta rispetto ai grassi idrogenati non sia neanche da mettere in discussione. Questo perché non esistono e non esisteranno – a breve o forse mai – alternative naturali che abbiano le stesse importanti caratteristiche tecnologiche: l’olio di palma essendo solido a temperatura ambiente garantisce una grande stabilità, sia nello stoccaggio che nell’utilizzo, inoltre permette la creazione di strutture consistenti e fragranti, infine, essendo inodore, non influisce sul sapore del prodotto finito.
Altra questione è il costo competitivo con il quale i prodotti a base di olio di palma si presentano sul mercato. Il suo prezzo inferiore rispetto agli altri dipende dal fatto che la coltivazione di palma da olio ha un ottima resa per terreno e una limitata necessità di acqua di irrigazione. Se si pensasse di utilizzare altre coltivazioni, per esempio in Europa l’olio di girasole, in nord Europa l’olio di colza, in Uruguay l’olio di riso e via dicendo, si andrebbe comunque incontro a una maggiore impiego di terreno e una conseguente deforestazione (per esempio la coltivazione di girasole necessiterebbe di 4 volte il terreno impiegato dal palma).
Anche un colosso alimentare come Barilla ha deciso di schierarsi a favore dell’utilizzo di questo ingrediente: “se paragonato ad altri oli vegetali, l’olio di palma risulta avere un ridotto impatto ambientale essendo caratterizzato da basse superfici coltivate in relazione alle elevate rese produttive, basse emissioni di Co2 e ridotti fabbisogni idrici. Se dovessimo sostituire il palma con altri grassi vegetali, la superficie da utilizzare sarebbe, nel caso della soia per esempio, circa 6 volte superiore.”
Ma esistono anche associazioni come Greenpeace e Salviamolaforesta che analizzano il problema della monocoltura industriale in paesi come la Malesia (40% dei terreni coltivati a palma da olio) e Indonesia (60%): in queste aree la coltivazione per l’olio di palma andrebbe a discapito degli ecosistemi naturali, privando le popolazioni locali delle loro coltivazioni. Il beneficio ne verrebbe tratto solo dalle grandi aziende produttrici perché le piantagioni altamente meccanizzate non procurano lavoro ai locali. Inoltre, l’altra problematica deriva da una questione di natura geologica: le foreste tropicali indonesiane sono dette ‘torbiere’ per la grande presenza di torba (deposito composto da resti vegetali impregnati di acqua che non si decompongono interamente e che costituiscono lo stadio iniziale del carbone). Chiara Campione, responsabile della campagna Foreste di Greenpeace Italia dice: “per attuare la conversione da foresta in terreno per la produzione industriale bisogna costruire canali di drenaggio e asciugare il terreno. La torba che non è coperta d’acqua viene incendiata , divenendo una bomba di Co2 e comportando gravissimi danni all’aria e alla ricca biodiversità della zona.”
Da diversi anni esiste una realtà che si chiama RSPO (Round Table on Sustainable Palm Oil), un processo di certificazione volontaria promossa da ONG come WWF, che detta linee guida per la produzione di un olio di palma sostenibile. Ma anche in questo caso Salviamolaforesta si scaglia contro questo, a detta loro, ennesimo sotterfugio. Si tratterebbe di marchi di certificazione pensati come un’espansione del business della palma e non come una strategia per limitarne gli impatti ambientali e sociali.
Sullo stesso piano anche Dario Dongo, avvocato che segue i diritti legati al cibo e cofondatore de Il Fatto Alimentare, con la sua denuncia a grandi imprese come la Plasmon per l’utilizzo di olio di palma e con la tesi che RSPO sia fondata dai grandi produttori di palma (che portano avanti tuttora land grabbing e deforestazioni) e dai grandi utilizzatori, che non smentiscono la logica del ‘profit over people’.
Infine il POIG (Palm Oil Innovations Group Charter), un organismo che mette insieme produttori, aziende e associazioni sulle linee guida di RSPO, distingue nei suoi principi tre aree di interesse: la responsabilità ambientale, la collaborazione con le comunità e l’integrità delle imprese e dei prodotti finiti. A far parte di questo gruppo le sopracitate Greenpeace e WWF, per dire le più note. Ad aver aderito come imprese invece tra le italiane risulta Ferrero, il colosso della crema spalmabile alla nocciola più famosa al mondo.
Ma la vicenda continua e la questione porta anche alcuni a pensare a dei diversivi.
Massimo Ambanelli di HiFood, azienda leader nella ricerca atta a trovare ingredienti alternativi a quelli considerati ‘scorretti’ dice: “la sostituzione dell’olio di palma è una scelta possibile. Il burro è di origine animale e troppo simile sotto il profilo dei grassi saturi; l’olio di oliva ha un gusto troppo caratteristico, può andare bene solo in sostituzione a prodotti da forno salati; l’olio di girasole è un ottimo sostituto ma non è sufficiente perché manca di caratteristiche tecnologiche come la solidità. Per questo, HiFood propone la combinazione tra oli vegetali e fibre naturali (con utilizzo di oli ‘locali’, per esempio in Italia il girasole), provenienti da materiali di scarto, come buccia di patate, crusca di riso, bucce di pomodoro, alghe. Tutte fibre con proprietà di grande utilità, che svolgono al meglio le stesse funzioni necessarie all’industria alimentare, troppo spesso affidate ai vari additivi, conservanti, emulsionanti, umettanti, stabilizzanti, identificati dalla sigla E…”. Tuttavia Ambanelli aggiunge anche che abbandonare l’olio di palma non sarebbe una scelta economica e ipotizza un aumento dei costi del 6%.
Per tornare all’aspetto salutistico, secondo una metanalisi pubblicata sulla rivista scientifica The American Journal of Clinical Nutrition (Palm oil and blood lipid–related markers of cardiovascular disease: a systematic review and meta-analysis of dietary intervention trials) che ha comparato tutti gli studi effettuati finora riguardo la relazione tra problemi cardiovascolari e l’assunzione dei grassi dell’olio di palma, parte dalla constatazione che la composizione di quest’ultimo è data dal 50% di acido palmitico, 40% di acido oleico e 10% di acido linoleico. Questo acido palmitico è l’acido grasso saturo più presente nei grassi animali e vegetali, oltre che a essere quello con la maggiore quota nel latte materno. Il risultato che ne deriva è ottenuto attraverso la sostituzione degli acidi grassi saturi dell’olio di palma con saturi di diverso tipo e con dei polinsaturi: la conclusione è che per l’appunto l’olio di palma è migliore dal punto di vista salutistico rispetto al burro e ai grassi idrogenati ma simile di comportamento rispetto alle sostanze grasse contenenti acidi grassi saturi generici e simili.
C’è chi invece con queste teorie proprio non ci convive e anzi, sostiene tesi scientifiche secondo le quali l’olio di palma sarebbe iper dannoso per la salute umana.
Tra questi troviamo il Prof. Francesco Giorgino, Ordinario di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo presso l’Università ‘Aldo Moro’ di Bari e coordinatore del comitato scientifico della Società Italiana di Diabetologia, che argomenta dicendo che “la proteina p66, sintetizzata dall’olio è capace di distruggere le cellule beta del pancreas, che producono l’insulina, ormone essenziale per tenere sotto controllo la glicemia, spalancando così la strada al diabete mellito.” Questo poiché: “il palmitato è il prototipo degli acidi grassi saturi, e rappresenta il principale acido grasso presente nel nostro sangue, soprattutto nei soggetti obesi o in sovrappeso. È stato scelto in questo studio per comprendere il rapporto tra eccesso di grassi saturi nella dieta, aumento della quantità di tessuto adiposo corporeo e sviluppo del diabete di tipo 2.    “L’obesità, in particolare quella viscerale, cosiddetta ‘a mela’ – spiega Giorgino – rappresenta uno dei più importanti fattori di rischio per lo sviluppo del diabete di tipo 2. Tuttavia, questa proteina è presente anche in maniera ridotta nel burro e nei formaggi, inoltre “i meccanismi responsabili di questo rapporto negativo non sono ancora del tutto chiariti, e per fortuna non tutti i soggetti obesi sviluppano il diabete.”
Sempre del Prof. Cassi è la considerazione sull’effettiva dannosità di questo olio sul corpo umano. Il parere dello scienziato questa volta ha una lettura più ampia e si sofferma sulla constatazione che la nutrizione, a differenza di materie come la matematica, non è una scienza esatta. Ogni organismo ha una sua modalità di risposta rispetto al cibo che ingerisce e proprio per questo motivo sarebbe impossibile, in un caso come questo, definire una soglia esatta di rischio, oltre la quale si avrebbe la certezza che ogni singolo organismo umano verrebbe messo in una situazione di pericolo.
Un punto di vista ampio come questo ci sembrava fosse quello idoneo alla chiusura di questo articolo che non avrà condotto nessuno fuori dal labirinto ma che per lo meno forse avrà fornito qualche strumento in più per leggere in maniera critica le moltissime informazioni, oramai presenti ovunque.
 
 
 

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